Sotto un cielo blu senza l’ombra di una nuvola, lasciamo il comfort del nostro hotel di Borrego Springs e iniziamo a macinare chilometri lungo la Borrego Salton Seaway, attraversando una sorta di deserto brullo dall’aspetto quasi lunare in cui non vi è praticamente segno di vita umana. La temperatura si è fatta già rovente, nonostante sia ancora mattina e poco dopo, dall’alto, vediamo apparire lo specchio d’acqua lattiginoso del Salton Sea, il più grande lago della California. Inizialmente, quando a casa stavamo preparando l’itinerario, pensavamo di tirare dritto verso Palm Springs ma poi, sempre stimolati dal libro “Wasteland. Viaggio nella California dimenticata tra città fantasma e deserti addormentati” di Alessia Turri, abbiamo deciso di includerlo, stregati dagli affascinanti racconti dell’Autrice e dalle particolari immagini e informazioni che siamo riusciti a trovare sulla rete, compreso un interessante reportage apparso sul “Corriere della Sera” qualche anno fa, del quale riportiamo un estratto.
“Nel mezzo del deserto californiano, come un miraggio, spunta dal nulla un grande lago di un blu intenso, circondato da sabbia chiara. Ma basta avvicinarsi per capire che le rive sembrano bianche perché coperte da scheletri frantumati di pesci e ossa animali, mentre l’acqua tersa, illusione ottica del clima torrido, è in realtà densa di alghe putrescenti che emanano un odore nauseabondo.
Quella del Salton Sea, il più grande lago del Golden State americano, a poche miglia dal confine con il Messico, è una storia unica e paradossale. A cominciare dalla sua nascita. Perché “l’enorme lago accidentale” si formò per un errore idraulico nel 1905, quando le acque del fiume Colorado vennero fatte deviare nel bacino dell’Imperial Valley. Si creò così un lago che attualmente si estende per quasi 1000 kmq (tre volte il lago di Garda) in una depressione di 71 metri sotto al livello del mare. Privo di sbocchi, il Salton Sea viene alimentato soprattutto da acque reflue e agricole, cariche di pesticidi, mentre le condizioni termiche ne determinano un’elevata evaporazione e un tasso di salinità superiore a quello dell’Oceano Pacifico.
Difficile credere che un tempo in quell’immensa superficie d’acqua salmastra, ora dimenticata da tutti, si specchiarono speranze di gloria e benessere. Durante gli anni cinquanta e sessanta il lago salato era infatti noto come l’”American Riviera”, un’esclusiva meta di vacanze che offriva sci nautico, pesca sportiva, regate e tornei di golf in campi faticosamente sottratti alla sabbia. Sorsero in poco tempo villaggi turistici, porticcioli, e addirittura una città marina in pieno deserto: Salton City, destinata ad ospitare le celebrità della vicina Hollywood. […] In questa mecca del divertimento, frequentata anche da Frank Sinatra, Jerry Lewis e i Beach Boys, si recava oltre mezzo milione di turisti all’anno.
Ben presto, però, sulla piccola Las Vegas lacustre iniziarono ad abbattersi piogge tropicali e inondazioni del fiume Colorado che la sommergevano ciclicamente. Fino alla grande devastazione del 1976 che cancellò per sempre intere zone residenziali. Da allora piloni di edifici e pali della luce emergono da acque salmastre e maleodoranti. Un declino inarrestabile, non da ultimo a causa dell’agricoltura intensiva praticata intorno al lago. Perché questa parte di deserto è stata trasformata in pianura coltivabile, grazie a una complessa rete di canali artificiali, una zona che produce il 60% del raccolto ortofrutticolo invernale degli interi Stati Uniti: oltre 2.000 kmq di campi in cui da decenni si fa uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi. Tutti finiti, con gli scoli idrici, ad alimentare il lago. L’acqua così alterata crea una fitta foresta di alghe che levando ossigeno ai pesci ne causa un’incessante moria. E le tilapie, le uniche specie ittiche in grado di resistere in ambienti così salini, quando infette, finiscono per falcidiare migliaia di uccelli che sostano al Salton Sea lungo la rotta verso Sud. Uccelli migratori che qui a volte rimangono per sempre, riversi in massa sulle sponde. Ancora non ci si dimentica di quell’agosto del 1999, in cui morirono quasi 8 milioni di pesci in un solo giorno, un tappeto di corpi esanimi galleggianti sul pelo dell’acqua. Miasmi letali che si spinsero in una cappa di decomposizione fino alla costa, facendo scappare gli ultimi turisti e buona parte dei residenti.
Ora rimangono qua e là desolati segni di vita passata, perimetri di case, bungalow marci, vecchi mobili incrostati dal sale, simulacri corrosi del divertimento balneare, sospesi sulle carcasse frantumate di pesci e pellicani. […] Da resort esclusivo a rifugio di precari, outsider, clandestini, oppure riparo di chi semplicemente vuole iniziare da capo. […] A Salton City, la città fantasma progettata per un boom turistico che ha all’improvviso cessato di esistere, ora restano solo enormi quartieri completamente vuoti, interminabili strade sabbiose e viali dai nomi esotici che non portano da nessuna parte. […] L’incubo per chi vive al Salton Sea è cadere nell’oblio, doversi rassegnare alla catastrofe ambientale che incombe sulla zona. […] Con l’aggravarsi della siccità e l’esaurirsi delle riserve idriche, infatti, il lago si ritira di anno in anno, scoprendo un letto tossico, carico di arsenico, selenio e Ddt, legati all’estensiva industria agricola. Se non ci saranno efficaci misure di intervento, nei prossimi dieci anni il volume del lago si ridurrà del 60% e la salinità triplicherà. Dimezzato l’apporto idrico, anche per via delle tecniche ottimizzate di irrigazione, il livello scenderà di sei metri, mettendo a nudo oltre 25.000 ettari di letto del lago: terriccio leggero e volatile destinato ad alzarsi al primo soffio di vento. Molti qua temono una tempesta di sabbia, come l’infernale “dust bowl” che spopolò le Grandi Pianure negli anni trenta del Novecento. Una nuova polvere tossica, che si spingerà fino ai bordi di Los Angeles e oltre la ricca Palm Springs, caccerà via i residenti delle valli, rendendo incoltivabili i campi, distruggendo beni e proprietà. […] La luce del deserto e l’odore di decomposizione avvolgono il Salton Sea in un’atmosfera apocalittica, intrisa di speranza e utopia. Il sogno californiano, nato con la corsa all’oro, pare ora dipendere da una corsa molto più affannata all’oro blu. Un bene che nessuna borsa al mondo, in tempi di incerte rivoluzioni climatiche, è in grado di stimare.”
Tutto questo si materializza davanti a noi quando arriviamo a Salton City e ci fermiamo in una stazione di rifornimento: tutto è desolazione e ugualmente desolate sono le persone delle quali incrociamo gli sguardi… Come deve essere vivere in questo posto, abbandonato da Dio e dagli uomini?
Iniziamo a percorrere la strada che costeggia il lago per poi deviare verso Niland che si riduce fondamentalmente in una via con poche abitazioni decadenti e qualche negozio di generi di prima necessità: qui acquistiamo acqua (risorsa fondamentale data la calura) e qualche pacchetto di biscotti da sbocconcellare in auto. Da qui siamo diretti a due luoghi iconici della zona, che raccolgono una comunità di varia umanità, legata da un filo conduttore psichedelico e visionario. La prima è Salvation Mountain, un piccolo colle realizzato con ogni tipo di materiale, come paglia e mattoni e decorata con fiori, cuori e simboli religiosi, opera allucinata di un ex veterano che decise di dedicare la sua vita a Dio, ergendo una sorta di totem dedicato all’Amore e a Gesù. Sotto un sole cocente (fa talmente caldo che lasciamo l’auto accesa con l’aria condizionata a palla!) camminiamo circondati da colori abbaglianti e iniziamo noi stessi ad avere visioni extraterrene!
Poco distante vi è invece Slab City, uno strampalato accampamento composto da camper, roulotte e autobus nei quali risiedono nomadi, hippie e persone che vogliono fuggire dalla civiltà. Non vi è elettricità, acqua corrente o altro tipo di servizio, eppure incontriamo alcuni essere umani che deambulano in mezzo al nulla, farfugliando frasi a noi incomprensibili e chiedendoci qualche spicciolo. Benché vi sia presenza umana, è uno dei luoghi quanto più lontani dalla civiltà che ci sia mai capitato di visitare. Ne siamo allo stesso tempo affascinati, straniti e qualche volta impauriti. Ritorniamo sulla 111 e, giunti a Bombay Beach, seguiamo alla lettera alcune indicazioni del libro per ritrovare alcuni villini che un tempo brulicavano di vita e rappresentavano il sogno americano di villeggiatura, per poi essere abbandonati in fretta e furia a fine anni settanta. Il posto è davvero incredibile: molte case sono addirittura sventrate e vi si può entrare, mentre tutto viene trattato con una rassegnata ironia, rappresentata da alcune poltrone abbandonate sulla spiaggia maleodorante ad addirittura un finto ufficio immobiliare di Sotheby’s che pubblicizza la vendita di villini decrepiti a prezzi esorbitanti… il tutto ha un particolare fascino, fatto di decadenza, desolazione e una sensazione di trovarsi davvero in un luogo unico, che rimarrà impresso nella nostra memoria. Salton Sea si dimostrerà essere la tappa più bella e ricca di emozioni dell’intero viaggio!
Tocchiamo i 117 F (47°C) mentre percorriamo i chilometri che ci separano da Palm Springs, una sorta di Las Vegas californiana, anch’essa in mezzo al deserto. Siamo lontani un centinaio di chilometri da Bombay Beach ma qui sembra di essere in un altro mondo: la città è patinata, curata e, grazie al suo clima caldo e secco, rinomata località di villeggiatura invernale. A partire dagli anni settanta, un numero sempre crescente di pensionati si è trasferito nella valle di Coachella e per questo Palm Springs ha iniziato ad evolversi da città fantasma durante l’estate ad una vera e propria città abitata per tutto l’anno. Dopo la sabbia tossica del Salton Sea, qui troviamo il nostro paradiso e non è solo un modo di dire visto che l’hotel in cui alloggiamo si chiama’ Little Paradise’! Visto che qui è bassa stagione, ci viene assegnato una sorta di grande appartamento, arredato in maniera elegante e con tutti i comfort, che affaccia sulla corte interna. Qui troviamo una grande piscina circondata da nebulizzatori per combattere il caldo che è davvero insopportabile. Effettivamente le goccioline d’acqua che vengono sparse nell’aria ci fanno provare una piacevole sensazione di fresco.
Il tempo di una doccia, ed eccoci ancora in pista, per concludere questa interminabile e meravigliosa giornata in cima al Mount San Jacinto State Park che, dall’alto dei suoi 2.595 metri domina la valle di Coachella: prendiamo la Palm Springs Aerial Tramway e, giunti in vetta, ci godiamo la frescura: 20 gradi in meno rispetto a Palm Spring! La zona è l’ideale per escursioni e passeggiate ma, data l’ora ormai tarda, noi ci limitiamo a godere del panorama mozzafiato che, col passare dei minuti, cambia all’approssimarsi del tramonto e dell’oscurità. Una distesa di luci sotto di noi ci mostra l’urbanizzazione senza soluzione di continuità da Palm Spring a Palm Desert e intorno solo il buio del deserto. Davvero magnifico! Abbinato al biglietto della teleferica vi è anche una cena al Pines Cafè, un self-service con poche pretese in cui ci nutriamo di cibi americani pasticciati: lasagne, patate e insalate abbinate a creme improponibili. Riguadagniamo la discesa e, in modo inversamente proporzionale, la temperatura si alza, fino a toccare i 35-40 gradi una volta giunti al parcheggio!
E’ stata davvero una giornata ricca di emozioni tra loro molto diverse, ma tutte molto forti e di grande impatto!
Itinerario: Borrego Springs – Salton City – Niland – Salvation Mountain – Slab City – Bombay City – Palm Springs – Palm Springs Aerial Tramway (Km. 295)
Pernottamento: Little Paradise Hotel